Questa settimana parliamo di nuovo delle dinamiche all’interno del mondo di chi fa videogiochi. Ho scelto questo titolo perché ho avuto una discussione con un amico molto preoccupato per quello che sta per succedere nel mondo dello sviluppo videoludico, dopo aver visto un trailer non proprio recente. Ve lo lascio guardare e poi ne parliamo.
La cosa che non andava giù al mio amico era non solo la presenza di pubblicità più o meno visibile nel gioco, ma anche la preoccupazione per quanto questa possa essere deleteria per i giochi futuri con la prospettiva di fare danni persino peggiori delle microtransazioni.
Oggi proviamo a fare due chiacchiere sulle microtransazioni e sul product placement nei videogiochi.
Le microtransazioni
Iniziamo col dire che le microtransazioni non sono il male assoluto, anche se a qualcuno può sembrarlo. Le microtransazioni sono un modello di business e servono banalmente a generare profitto.
Possono rappresentare, per esempio, una valida opzione per uno studio indie nato da poco. Uno studio emergente non può permettersi di chiedere una somma molto alta per il suo primo gioco, non perché il prodotto non è di qualità, ma perché non ha ancora una reputazione e i giocatori potrebbero non essere propensi a spendere molto. Se il prezzo di vendita è basso, è necessario vendere molte copie per rientrare nei costi, il che comporta una serie di rischi. Una possibile alternativa è distribuire il gioco a una cifra simbolica o addirittura gratuitamente, per poi chiedere ai giocatori piccole somme per migliorare o ampliare l’esperienza di gioco. Se la base utente, essendo il gioco gratuito, è molto ampia allora è statisticamente possibile riuscire a incassare di più a patto, ovviamente, che il prodotto sia valido.
Esistono, a mio parere, ottimi esempi in cui questo modello di business viene utilizzato con soddisfazione da parte dei giocatori. Ad esempio, in giochi in cui si pagano livelli aggiuntivi a volte facoltativi. Banalmente, mi riferisco a tutti quei giochi che si espandono tramite DLC. Senza voler arrivare a parlare di Blood and Wine di The Witcher 3 o di Horizon Forbidden West, ci sono molti titoli indie che offrono il primo livello gratuito (per permettere ai giocatori di capire se il gioco piace) e poi distribuiscono i successivi a pagamento. Se vi ricordate, avevamo già affrontato il discorso su perché i giochi hanno certi prezzi.
Notate anche come quest’ultimo caso può contribuire ad avere valutazioni mediamente più alte sugli store. Se il gioco è gratuito, un giocatore a cui non piace sarà meno propenso a lasciare un voto negativo; in fondo, non ha subito alcun danno economico. Viceversa, chi decide di acquistarlo è più probabile che lasci una valutazione positiva, perché il gioco gli è sicuramente piaciuto.
Ovviamente, come in tutti i modelli di business, anche nelle microtransazioni è possibile abusare del sistema, creando mostri orribili.
L’abuso delle microtransazioni
Qui iniziamo ad entrare nel vivo della questione, perché dobbiamo stabilire che cosa sia un abuso. In generale, a mio parere, si verifica quando pagare diventa una meccanica di gioco.
Può essere una meccanica forzata: ovvero, o spendi o non finisci il gioco. Può essere una meccanica facoltativa, se il gioco si può comunque completare ma con più difficoltà. Attenzione però, perché il confine tra questi due mondi è molto sfumato: potrei riuscire a finire il gioco lo stesso, ma con una difficoltà decisamente troppo alta, e alla fine mettere mano alla carta di credito non per obbligo, ma per frustrazione. L’unico esempio che vi faccio è, purtroppo non per la prima volta, Battlefront II di EA del 2017, dove l’alternativa era pagare o affrontare interminabili ore di grind. E questo, la fanbase di Star Wars, lo prese malissimo. Purtroppo, di esempi simili ce ne sono tantissimi, ma non ho neppure intenzione di nominarli.
Molti inseriscono nell’abuso di microtransazioni anche il cosiddetto pay-to-win, ovvero quando si acquistano potenziamenti o bonus. Premesso che, personalmente, ho un’allergia fortissima (quasi un disprezzo) per i giochi che lo fanno, per quanto mi riguarda non è un abuso. Comprare un bonus, per come la vedo io, danneggia il giocatore, perché alla fine si perde parte del gusto della vittoria. Inoltre, se siamo onesti, fa anche parte della vita di tutti i giorni. Quando usciamo con gli amici, non c’è sempre qualcuno che riceve più complimenti perché ha un'auto, un vestito o un cellulare più bello (e costoso) di tutti gli altri? Inoltre, il pay-to-win è anche la forma più antica di microtransazione di cui si abbia memoria. Vi ricordate i vecchi cabinati? Quando finivano le vite e appariva il “Game Over”, c’era sempre l’opzione di continuare a giocare acquistando vite extra con un’altra moneta. E quello, cos'era se non una microtransazione pay-to-win?
Eppure, anche il pay-to-win può diventare un abuso. Però non per colpa del programmatore o del designer, ma dei giocatori. Se si crea un ambiente tossico in cui tutti investono molto, allora anche chi non vuole spendere è costretto a farlo o a cambiare gioco, perché altrimenti non riesce a competere o a stare al passo con gli altri. Attenzione, perché a volte questa dinamica diventa così forte da coinvolgere persino transazioni apparentemente innocue. Esempio tristemente reale: per alcuni ragazzini non è possibile giocare a Fortnite senza acquistare skin. Quando ho sentito il figlio di un amico affermarlo con convinzione, ho voluto approfondire il discorso con lui. Il risultato? Senza skin premium, i suoi amici lo prendevano in giro e si rifiutavano di stare in squadra con lui, impedendogli di fatto di giocare. Purtroppo, non sono sicuro che fosse un caso isolato.
E voi che ne pensate? Scrivetemelo nei commenti!
La terra di mezzo: i live service
Definirli così è una scelta mia, ma sicuramente i live service sono stati, e sono ancora, una pratica molto discussa.
I giochi in live service, di per sé, non sono un concetto negativo. Si tratta di giochi online che continuano a rinnovarsi per mantenere sempre e costantemente coinvolti i giocatori. Pe ottenere il risultato, forniscono continuamente nuovi contenuti e stimolano la formazione di comunità di utenti al loro interno. Ovviamente, questo sforzo continuo ha un costo che non riesce a essere coperto con solo il prezzo iniziale del gioco. Pertanto, i giochi che aderiscono a questo modello possono chiedono un abbonamento mensile (come World of Warcraft o EVE Online nella versione Premium) oppure, ancora una volta, invogliare alle microtransazioni.
Anche qui, purtroppo, con il tempo e l’opportunità, sono stati creati dei mostri.
Nessuno può negarlo: sono stati progettati giochi in live service che sfruttano una serie di nostri meccanismi inconsci per continuare a farci giocare incessantemente. Esistono infatti intere generazioni di psicologi che si sono prodigate a studiare questi meccanismi. Ad esempio, vi siete mai chiesti perché in certi giochi ogni volta che vi collegate online vi fanno un regalo in-game? E perché, quando giocate da un po’, diventa più facile vincere? E tutte le volte che fate anche il più piccolo avanzamento viene celebrato con effetti visivi hollywoodiani? Beh, fatevi una domanda e datevi una risposta. Se poi siete, come me, incuriositi da questi meccanismi, vi suggerisco di leggere Le armi della persuasione di Robert Cialdini.
Fino a qui, niente di male, ma se inseriamo nel gioco anche delle microtransazioni come meccaniche forzate… ecco la tempesta perfetta!
Questi giochi, che esistono soprattutto per dispositivi mobili (e che quindi sfruttano la nostra propensione a mettere la mano in tasca appena possiamo), sono parecchi e sono quelli che, secondo la mia opinione, alla fine, rovinano l’immagine dell’intero settore videoludico. Poi vediamo i soliti incompetenti videoludici da salotto che dicono che i videogiochi sviluppano dipendenza. Vero, ma non tutti! Solo una minima parte. E non fanno danni diversi da molte altre attività socialmente accettate, come (perdonatemi) sentirsi sistematicamente compulsi ad andare allo stadio ogni volta che la nostra squadra disputa una partita (perché “giocare” è un’altra cosa).
La crisi di un modello
È innegabile che un modello così predatorio, come quello generato dalle microtransazioni, non potesse durare per sempre. Un po’ perché la crisi economica riduce i nostri budget e un po’ perché (fortunatamente) i giocatori iniziano a rendersi conto di quello che sta succedendo. Non sto dicendo che quel tipo di industria sia in crisi (purtroppo), ma almeno si comincia a osservare una flessione, dovuta anche alla saturazione del mercato. Negli ultimi due anni, infatti, sono stati molti i giochi live service che hanno chiuso, spesso anche in maniera piuttosto problematica. Facciamo qualche nome? Concord, The Day Before, Babylon's Fall, CrossfireX. Ma la lista è molto più lunga.
Quindi, sta diventando progressivamente più difficile spremere soldi dai giocatori, mentre i costi per produrre giochi di qualità continuano ad aumentare. Che fare, allora? Quello che fanno tutte le squadre sportive quando non riescono a sostenersi con gli abbonamenti dei tifosi: ci si cerca uno sponsor.
The next level: la pubblicità nei videogiochi
Anche di questo si parla tanto, ma non è affatto una novità. Il primo caso risale addirittura al 1982 con Pole Position. Sulla pista, infatti, si potevano vedere cartelloni pubblicitari con cui si promuovevano aziende reali. Pole Position è stato però seguito a ruota da Tapper, che nel 1984 non solo faceva pubblicità a Budweiser, ma il suo sviluppo era stato anche sponsorizzato dal brand. Solo anni più tardi abbiamo iniziato a classificare questo tipo di prodotti con il nome di advergame.
Il product placement, ovvero la collocazione di prodotti all’interno di produzioni multimediali, è un tipo di pubblicità diversa. Molto spesso si punta più al brand che a un prodotto specifico. Nei film, ad esempio, viene utilizzato fin dal 1896 collocando sul set bottiglie, elettrodomestici, capi di vestiario, automobili e molto altro. Quanti di noi hanno conosciuto la DeLorean come casa automobilistica solo perché hanno visto Ritorno al futuro?
Nel filmato iniziale abbiamo visto bene Adidas, mentre la scarpa risulta essere piuttosto anonima. Anche questo avviene da anni: uno dei primi esempi di product placement nei videogiochi è Pepsiman nel 1999, ma potremmo citare anche Burger King, che ha sponsorizzato tre giochi solo nel 2006.
Il problema del product placement
Arriviamo ora al punto da cui eravamo partiti: perché il mio interlocutore era così preoccupato per il product placement all’interno del trailer di Intergalactic? Non certo per la pubblicità in sé. In fondo, ne siamo bombardati attraverso quasi ogni canale. Il problema è l’influenza che questi brand (che pagano) possono avere sulla produzione del gioco.
Abbiamo già parlato in un’altra occasione delle brutte influenze del marketing. Il marketing decide quando il gioco deve uscire in base a criteri puramente commerciali e, se gli sviluppatori non fanno in tempo, peggio per loro: tanto c’è sempre la megapatch al day one. E adesso, almeno, è chiaro a chi dare la colpa.
Un brand vorrà avere quanta più visibilità possibile verso i giocatori. Potrebbe addirittura essere disposto a pagare somme aggiuntive per collocarsi ancora meglio. Che garanzie ci sono che la progettazione del gioco non venga snaturata o addirittura stravolta? Perché un’azienda che produce frigoriferi (ho preso un oggetto totalmente a caso) non ha alcun interesse che il gioco sia davvero un successo; per lei quel prodotto digitale è l’equivalente di un cartellone pubblicitario appeso in una via molto affollata. L’unica cosa importante è che lo vedano in tanti; se il gioco va bene o male è del tutto irrilevante.
Inoltre, come ultimo spunto, questa dinamica potrebbe mettere a confronto due realtà che non possono competere alla pari, con il rischio che una sia destinata a soccombere. Immaginate di lavorare in uno studio indie e di firmare un contratto di product placement con una grande azienda di moda. Questa, mi si passi l’espressione, spende ogni mese per la carta igienica più di quanto voi avete a disposizione per l’intera produzione. Se vi arriva sul tavolo un assegno a sei cifre (che per loro sono spiccioli) in cambio di un design controllato da loro e finalizzato solo al brand, che fate? Non prendere i soldi potrebbe voler dire realizzare un bel gioco ma rischiare di non arrivare in fondo. Prenderli, invece, significa accontentare gli investitori e garantire gli stipendi, ma con il rischio concreto di fare un gioco di 💩!
A questo, purtroppo, non ho una risposta. Però sono abbastanza sicuro che questo discorso farà riflettere molti di voi.
E con questo, anche per questo lunedì abbiamo finito. Se avete opinioni o domande su questo argomento, fatemele sapere nei commenti; prometto che risponderò a tutti. Nel frattempo, mentre ci pensate, se non lo avete ancora fatto, iscrivetevi a questa newsletter per riceverla comodamente nella vostra casella ogni lunedì mattina.
Happy hacking!
Come esempio di micro transazioni, i mmorpg della Ankama, piccolo abbonamento e per mantenere tutto anche micro transazioni per cose che migliorano leggermente il gioco ma non lo stravolgono.
Mentre per quanto riguarda il "product placement", se usato bene, secondo me facilita l'immersività del giocatore, usando proprio questi simboli come continuità dalla sua realtà a quella del gioco.
I coin-op della golden age erano pieni di riferimenti a brand opportunamente modificati che aiutavano a capire meglio la posizione del personaggio.